Katy Keiffer: l’insostenibilità degli allevamenti industriali

di Sara Perro

Katy Keiffer: l’insostenibilità degli allevamenti industriali

Come la mettiamo con la carne? Tradotto alla lettera, suonerebbe più o meno così il titolo originale del denso libro-inchiesta della giornalista americana Katy Keiffer, pubblicato in Italia da EDT con il più agile claim “Basta carne?”. Il punto interrogativo non è retorico, ma evidenzia quello che è il più grande dilemma dell’odierno sistema cibo: l’esistenza, forse la necessità, senza dubbio l’insostenibilità degli allevamenti industriali.

Katy Keiffer: l’insostenibilità degli allevamenti industriali

Ex autrice di libri di cucina, ex cuoca ed ex macellaia, Keiffer il settore alimentare lo ha frequentato per oltre trent’anni come addetta ai lavori e oggi, da giornalista e conduttrice radiofonica, quella domanda la pone prima di tutto a se stessa. Con grande onestà intellettuale e una corposa dote di esperienza e documentazione, affronta dunque un viaggio nell’industria globale della carne, portandone alla luce  i costi occulti. Inquinamento dell’acqua, dell’aria e del suolo, impatti sul clima, abuso di antibiotici e rischio di pandemie, perdita di biodiversità, terrificanti condizioni degli animali, iniquo trattamento dei lavoratori. I retroscena, insomma, che la maggior parte della gente ignora e probabilmente non ha nessuna voglia di vedere, visto che è molto comodo dare per scontata una scorta pressoché inesauribile di proteine animali a basso costo. «Nel 2014 – si legge nell’introduzione al saggio – sono state prodotte globalmente 315 milioni di tonnellate di carne. Una media di 43,4 chilogrammi per persona». Considerando che nei paesi in via di sviluppo la domanda è in aumento (e non si può, realisticamente, pensare di bloccarne la crescita), l’ONU stima che nel 2050 si arriverà a 450 milioni di tonnellate all’anno, il doppio del 2000.

Paradossalmente, questa gigantesca mole produttiva è nelle mani di pochissime multinazionali, che la controllano attraverso un modello di allevamento industriale ormai diffuso a livello globale, il cosiddetto CAFO. E proprio qui sta il nodo etico e ambientale della questione. «Il sistema Concentrated Animal Feeding Operation (questo il significato dell’acronimo) non si può più definire allevamento. Si tratta di una vera e propria fabbrica, dove però le materie prime sono esseri viventi – spiega Keiffer – Gli animali sono ammassati in spazi ridotti, appena sufficienti alla sopravvivenza e senza possibilità di movimento, nutriti con mangimi e cocktail di sostanze chimiche accuratamente dosati per stimolare la crescita e prevenire le malattie. Sono metodi disumani ma super efficienti, che hanno consentito di aumentare la produzione e abbassare il costo della carne, diffondendone così il consumo in tutto il mondo. Questa “democratizzazione” delle proteine animali ha però un prezzo molto più alto dei due dollari che crediamo di pagare per una libbra di pollo».

Oltre alla preoccupazione etica per il welfare di polli, bovini e maiali, ci sono una serie di pesanti ricadute ambientali e sanitarie derivate da un metodo di allevamento che privilegia quantità e rapidità a discapito di qualità, resistenza e resilienza. La selezione genetica, tanto per cominciare, riduce la biodiversità, indebolendo le razze, che diventano così più esposte a epidemie. Per prevenirle, si ricorre agli antibiotici, il cui uso smodato nel corso degli anni ha però reso più resistenti i batteri, innescando un letale circolo vizioso e facendo diventare sempre più reale il rischio di pandemie. Come se non bastasse, i trattamenti chimici sugli animali, attraverso i reflui, vanno a finire nelle falde acquifere e nel suolo, inquinandoli a tal punto da renderli inservibili per la coltivazione. Se si aggiunge l’impatto sul clima, da un lato a causa dei gas serra prodotti in tutta la filiera dell’allevamento (il 14% del totale, secondo la Fao), dall’altro per il consumo di risorse idriche sempre più scarse, il quadro è completo e decisamente insostenibile.

Che fare dunque? Katy Keiffer non ha soluzioni in tasca, ma qualche suggerimento sì. «È necessario rompere i monopoli, diversificare il consumo, aiutare le filiere a km zero. I consumatori, con le loro scelte, devono chiedere una maggiore regolamentazione per il welfare degli animali e obbligare le multinazionali a prendersi le proprie responsabilità per i costi ambientali, smettendo di scaricarle sulla rete di piccole aziende a cui vendono il proprio “metodo”. Insomma – conclude – il punto non è smettere di mangiare carne, ma imparare a scegliere».

di Giorgia Marino

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